quinta-feira, 19 de novembro de 2009

Battisti, sì all'estradizione Ha seguito il verdetto in tv

Cesare Battisti

Brasilia, La Repubblica - Il sorriso beffardo di Cesare Battisti s'è spento sulle sue labbra come una nuvoletta spazzata dal vento. S'è spento quando il presidente della Corte Suprema del Brasile, Gilmar Mendes, s'è alzato in piedi al termine di una arringa di quasi due ore a favore dell'estradizione. Erano le 16,21 precise, ora locale. "In democrazia - aveva concluso Mendes - il crimine politico non esiste. In democrazia non si uccide per difendere ragioni ideologiche o ideali. Chi uccide è un criminale e basta".

Sdraiato sul suo lettino nel carcere di Papuda, a meno di venti chilometri dal centro di Brasilia dove ha sede la Corte Suprema, Cesare Battisti ha ascoltato l'ultima udienza sul suo destino via radio. Bevendo acqua, l'unico alimento che s'è concesso nel disperato tentativo di cambiare una sorte che ormai vedeva avvicinarsi. La farsa è finita. E anche le bugie. Tutte quelle che ha raccontato anche a se stesso negli ultimi vent'anni, fuggendo le sue colpe e i suoi ricordi da un paese all'altro, e finendo magari anche per crederci. Chi l'ha incontrato in carcere lo ha definito un istrione, un affabulatore, capace di giocare con la menzogna, di farsi compatire, di commuovere anche. Non fosse per quel sorriso che non l'abbandonava mai e che instillava sempre un dubbio, un sospetto nei suoi interlocutori.

Sabbadin, Campagna, Torregiani, Santoro, ecco i fantasmi che devono essere tornati nella cella di Battisti a mordere la sua mente mentre Gilmar Mendes li ricordava uno per uno smontando tutti gli argomenti della difesa, tutte le bugie raccontate anche in quest'aula. "Rapine, vendette cosa c'era mai di politico in quegli atti", diceva Mendez, mentre Battisti - raccontano le guardie del carcere - si metteva seduto sul letto, sbuffava, spegneva la radio e poi la riaccendeva. Ad un certo punto ha avuto anche il permesso di raggiungere la sala comune del carcere per seguire l'udienza in televisione. È allora che ha visto Barroso, il suo famosissimo avvocato costituzionalista, con gli occhi verso il soffitto dell'aula e le mani fra i capelli. "Mi dispiace, mi dispiace", mormorava Barroso ormai certo della sconfitta mentre l'affondo di Mendes diventava sempre più determinato.

Citava, il presidente, Martin Luther King e Chico Mendez, il difensore dell'Amazzonia ammazzato dai latifondisti, e chiedeva ai suoi colleghi. "Non li avreste estradati? Non avreste estradato gli assassini di Martin Luther King e Chico Mendez se foste stati chiamati a decidere? C'erano anche "ragioni politiche" nelle loro morti, ma voi avreste liberato i loro assassini concedendogli l'attenuante dell'omicidio politico, lo status di rifugiati? No. Perché erano degli assassini e basta".

"È finita, Cesare", gli è andato a dire il direttore del carcere di Papuda poche ore dopo aver permesso l'ultima commedia. L'altro pomeriggio, quando una delegazione di parlamentari si è recata in carcere per esprimere solidarietà all'ex terrorista italiano. Ubriachi di vecchie ideologie, tre deputati e un senatore del Psol, un partitino di estrema sinistra, insieme al senatore Suplicy del partito di Lula, sono andati a stringere con Battisti il "giuramento", il patto scellerato per la sua libertà. È sorprendente quanto assomigli questo caso per il Brasile a quello che l'Italia fu costretta a vivere, dall'avventurismo e dall'irresponsabilità di alcuni dirigenti di Rifondazione comunista, con il capo dei terroristi curdi, Ocalan. Il gioco è lo stesso: costringere un governo progressista - allora era la fine del '98 e in Italia a Palazzo Chigi c'era Massimo D'Alema - a commettere un grave errore di politica internazionale difendendo, in nome di non meglio precisati "diritti umani", il terrorismo.

L'ultima speranza di Battisti ora è il presidente Lula, se alla fine la Corte Suprema deciderà che è al Capo dello Stato che spetta l'ultima parola. Ma anche Lula sembra aver ormai capito la trappola nella quale hanno cercato di infilarlo. A Brasilia i suoi amici non si chiudono più la bocca, come fecero a gennaio quando il ministro della Giustizia Tarso concesse l'asilo politico, e raccontano, seppure off-the-record per non essere citati, che il presidente è furioso con Genro. Gli incontri di Roma, con D'Alema e Berlusconi, hanno contribuito a chiarirgli le idee. Ora, se il Tribunale gli concederà l'ultima parola, è probabile che prenda tempo. Magari fino a gennaio, quando Tarso Genro lascerà l'esecutivo per candidarsi alle elezioni. Battisti non arriverà presto quanto l'Italia ormai vorrebbe. Ha ancora un processo pendente in Brasile, quello per il passaporto falso che usò arrivando a Fortaleza nel 2004. Ma ormai il sipario è strappato, la commedia delle menzogne svelata. Quel Brasile dove aveva sperato di sfuggire per sempre alla sue colpe lo ha respinto.

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