Come molte creature di laboratorio, anche Romano Prodi è sfuggito da tempo ai suoi inventori. Nel lontano 1994, all’indomani della travolgente vittoria di Berlusconi, post-comunisti e post-democristiani capirono che, per battere il Cavaliere, avrebbero dovuto stringere un’alleanza. Se molti ricordano il pranzo di Gallipoli fra D’Alema e Buttiglione (allora segretario del Partito popolare), meno noti sono gli incontri fra lo stesso D’Alema e Beniamino Andreatta, che nel ’94 era il capogruppo del Ppi a Montecitorio.
Furono Andreatta e D’Alema a «inventare» Prodi, cioè a scegliere a tavolino l’anti-Berlusconi, l’uomo che avrebbe dovuto guidare il futuro Ulivo: moderato, cattolico, estraneo ai partiti quel tanto che basta per renderlo popolare ma, anche, più controllabile, benvoluto ai poteri più o meno forti, e soprattutto malleabile perché, più o meno come Berlusconi, considerato ignorante di politica. Gli inventori di Prodi avevano in testa uno schema ben preciso: costruire un’alleanza che restituisse ai partiti il potere perduto con Tangentopoli, realizzare con vent’anni di ritardo il compromesso storico (Andreatta era un moroteo, D’Alema il pupillo di Berlinguer), «costituzionalizzare» Berlusconi e, per così dire, educarlo alla politica con un lungo periodo di opposizione. Prodi fu scelto per fare il testimonial e il frontman, non il leader: al contrario esatto di Berlusconi, anziché creare un movimento e costruirci intorno un’alleanza, Prodi fu creato da due partiti che già si stavano alleando per conto loro.
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