sábado, 5 de setembro de 2015

Roma, città degli elefanti

National Geographic Italia, settembre 2015


FOTOGALLERIA C'era una volta, prima di Romolo e Saturno, un esercito di giganti... La capitale custodisce un sorprendente patrimonio di resti di pachidermi preistorici
di Federico Gurgone fotografie di Guido Fuà

La fotografia apparsa sui giornali italiani nel maggio del 1932: un cranio e una zanna di Elephas primigenius erano stati ritrovati pa pochi metri dal Colosseo, durante i lavori di sbancamento della collina della Velia voluti da Mussolini per la realizzazione della via dell'Impero (oggi via dei Fori imperiali). Fotografia tratta dall'Archivio X ripartizione Comune di Roma

Città eterna, la chiamano. Quasi fosse appartenuta in perpetuo, svincolata dalla palingenesi di una creazione, a senatori e popolo, re, imperatori e papi. Eppure l’immaginazione scalpita, nella confortevole torre eburnea della definizione. Attende la liberazione da un cortocircuito conoscitivo. Intuisce che ogni passato implica un trapassato.

Così finisce che la maglia rotta nella rete dei pigri assiomi culturali la trovi proprio dove meno te lo aspetti. E lì dove tutto sembrava scontato è uno scarto improvviso, oltre la siepe dei pregiudizi classicisti, a scoperchiare l’infinito delle ere geologiche.

«È sufficiente passeggiare in via dei Fori Imperiali per incappare in una vorticosa cesura spazio-temporale», racconta Patrizia Gioia, archeologa della Sovrintendenza Capitolina e responsabile del Museo di Casal de’ Pazzi. «Procedendo da piazza Venezia fino all’innesto con via Cavour, le nostre suole sfiorano la superficie nota della città della lupa, cesellata tra le sontuose piazze di Traiano e Cesare, Augusto, Nerva e Vespasiano. Al di là dell’incrocio, invece, l’altimetria di epoca romana fu sconvolta dall’edificazione di via dell’Impero. Affinché il Colosseo fosse visibile dal Vittoriano, Mussolini ordinò infatti di sbancare un’intera collina: la Velia». 

Perciò avanzare attraverso il vuoto lasciato dal colle significa camminare su una quota sommersa per millenni da tonnellate di terra incognita e poggiare i piedi su strati che non sono più archeologici. Gli antichi lo sapevano, che c’era un prima. Già Svetonio, narrando la vita di Augusto, ricorda la passione con cui l’imperatore raccoglieva grandi ossa fossili, attribuendole a favolosi giganti di età mitiche. Spettri addormentati nel sottosuolo di Roma che, a monito di una memoria profanata dal piccone littorio, si ritrovarono all’improvviso sotto le luci della ribalta, quali scherzi di natura infiltrati per capriccio sulla scenografia cardine del sedicente impero fascista.

«Una foto conquistò le prime pagine dei quotidiani nel maggio del 1932: un cranio e una zanna riemergevano al cospetto del Colosseo», prosegue Gioia. «Un’archeologa e artista, Maria Barosso, dalla scena trasse anche uno splendido acquerello». I quiriti non calpestarono mai quel piano, battuto per mezzo milione di anni da inquilini molto più ingombranti: gli elefanti.


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