Lavoro, dal governo nuovo patto con i giovani
Qualche anno in più e poi una pensione più alta
Roma - Mini-riforma o maxi-riforma? L’emendamento inserito a sorpresa dal governo nel decreto anticrisi presentato in giugno modifica, a partire dal 2015, le regole per il pensionamento di tutti: a partire da quell’anno, infatti, uomini e donne vedranno ritardare la loro uscita dal lavoro con un meccanismo automatico, legato alle aspettative di vita certificate dall’Istat. Ma se questo significa restare più a lungo al lavoro, vuol dire anche l’ottenimento di una pensione più alta. Vediamo in che modo, ma con un’avvertenza preliminare: la norma prevede che il dettaglio delle nuove regole sia emanato con decreto ministeriale entro il 31 dicembre 2014. Insomma, ci vorrà tempo prima di conoscere i particolari dell’operazione.
Come funziona il meccanismo. Fra sei anni, nel 2015 appunto, l’età per il ritiro dal lavoro non sarà più fissa, bensì legata all’aspettativa di vita. L’emendamento governativo prevede che in questa prima fase l’aumento dell’età pensionabile non possa superare comunque i tre mesi, a prescindere dalle rilevazioni ufficiali sulle speranze di vita. Se così sarà, l’età minima di pensionamento (considerata secondo gli «scalini» introdotti dall’ex ministro Cesare Damiano al posto dello «scalone») sarà di 61 anni e 3 mesi per i dipendenti, e di 62 anni e 3 mesi per gli autonomi. Ogni cinque anni, sempre con riferimento ai dati Istat sulle aspettative di vita, ci sarà una revisione. Se l’innalzamento delle aspettative sarà simile a quello degli ultimi anni (2-3 mesi per anno), allora il meccanismo automatico produrrà un aumento dell’età pensionabile di tre mesi per ogni anno del quinquennio. Ad esempio: 3 mesi per 5 anni, uguale 15 mesi. È ancora da capire se si potrà comunque andare a riposo con i 40 anni di contributi, a prescindere dall’età anagrafica.
I passi successivi al 2015. Come si è visto, nel 2015 l’aumento dell’età pensionabile non potrà superare comunque i tre mesi. Ma un lustro più tardi, nel 2020, si potrebbe andare in pensione fino a un massimo di 15 mesi dopo il previsto. Così, nel 2010, l’età pensionabile dei lavoratori dipendenti arriverebbe a 62 anni e tre mesi, mentre quella dei lavoratori autonomi raggiungerebbe i 63 anni e 3 mesi. Nel 2030 - dopo la terza revisione quinquennale - l’età potrebbe aumentare ancora fino a 64 anni e 3 mesi per i dipendenti e a 65 anni e 3 mesi per gli autonomi. Nel 2035 si arriverebbe a 65,3 anni per i dipendenti e a 66,3 anni per gli autonomi. Si tratta di previsioni da prendere con le molle. È infatti necessario che l’aspettativa di vita continui ad aumentare regolarmente per il prossimo quarto di secolo (e non è detto che questo avvenga, soprattutto in Italia dove già oggi è tra le più elevate del mondo).L’assegno sarà più pesante. Fatalmente, se si resta a lavorare più a lungo si pagano più contributi e si riceverà una pensione più alta. Nel sistema contributivo, l’ammontare della pensione è legato ai contributi versati, moltiplicati per il cosiddetto «coefficiente di trasformazione». La riforma Dini del ’95 ha previsto una revisione decennale dei coefficienti, a cui però i sindacati si sono sempre ferocemente opposti. Il motivo è evidente: se i coefficienti vengono rivisti al ribasso, anche a parità di contributi la pensione si riduce. Il sistema introdotto con l’emendamento Sacconi-Tremonti va in direzione opposta: si lavora di più, quindi la pensione aumenta (anche grazie al fatto che a fine carriera i contributi sono più «pesanti»). Ma di quanto crescerà la pensione? Ognuno fa caso a se, ma secondo le simulazioni di Milano Finanza-Progetica, si potrebbe andare da un minimo di una quarantina di euro a un massimo di oltre 300 euro, ma solo nel lontano 2043.
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