"Credevo di sapere il significato della parola migrante. Un tempo credevo di saperlo. Anche rifugiato conoscevo bene come parola. Sono figlia di rifugiati d'altronde. So cosa significa vivere accanto a chi ha dovuto forzatamente lasciare la propria terra per una dittatura o una guerra...". Per la scrittrice Igiaba Scego (nella foto), in libreria con "Adua", qualcuno sta "cambiando, svuotando, avvelenando" le parole... - Su ilLibraio.it la sua riflessione e i suoi consigli di lettura (libri che "sapranno difenderci da ogni veleno e da ogni razzismo...")
Ultimamente ho un problema con le parole. Una scrittrice non dovrebbe mai confessare un così sordido segreto, ma è la realtà dei fatti, quindi è meglio che sputi il rospo adesso, qui, davanti a tutti. Le parole stanno diventando altro. Qualcuno le sta cambiando, svuotando, avvelenando. Le parole, come vecchi pugili al tappeto, hanno cambiato i connotati. Credevo di saper qualcosa che l’odio vuole cancellare. Amo la letteratura per questo, perché come ogni forma d’arte dà peso anche ai sospiri. Ed ecco a voi alcuni libri che sapranno difenderci da ogni veleno e da ogni razzismo:
L’approdo (Elliot) di Shaun Tan: Shaun Tan è un artista australiano di origini malesi. Il suo libro commuove e spinge alla riflessione. Il viaggio presentato in questo stupefacente Graphic Novel è un omaggio a tutti i migranti di ogni epoca e di ogni terra. In ogni tratto si nasconde una vita, memorie impolverate che finalmente ritornano alla luce. Un libro da sfogliare e da tenere vicino al proprio cuore.
Vita (Einaudi) di Melania Mazzucco: Prince Street è il cuore del ghetto italiano di New York. È qui che ad inizio Novecento sono arrivati i siciliani, i calabresi, i campani, i veneti. Hanno preso navi che dal Mediterraneo li hanno depositati laceri e sporchi ai piedi dell’americanissima Statua della Libertà. Vita e Diamante vengono da Tufo di Minturno in provincia di Caserta. Lui ha dodici anni e lei nove. In America sono solo numeri. Ma loro sanno di essere persone. Per questo si stringono l’uno all’altra, per darsi calore, per farsi coraggio. Vita ci racconta una storia italiana che tanto assomiglia all’epopea odierna di siriani, eritrei, somali, afghani.
Uomini sotto il sole (Sellerio) di Ghassan Kanafani: Gli uomini sotto il sole sono tre rifugiati palestinesi che vorrebbero solo un futuro lontano dai campi profughi. Per questo mettono la loro vita in mano ad un autista che li fa attraversare il deserto iracheno dentro un autocisterna vuota. La meta è il ricco Kuwait. In Kanafani, come del resto nel film di Tawfiq Saleh Al Makhdu’un (gli illusi) tratto dal libro, c’è una grande accusa verso gli stati del golfo e in generale gli stati arabi che si dicevano vicini a parole alla causa palestinese, ma che in realtà non muovevano un dito per aiutare i rifugiati. Un libro che parla anche all’Europa di oggi e ai suoi egoismi incrociati.
Controvento (Marcos Y Marcos) di Ángeles Caso: São è una donna capoverdiana che ha lasciato la sua isola per cercare un futuro, uno qualsiasi, in Europa. La sua vita è piena di sacrifici e sconfitte. Ma São e tutte le sue amiche sapranno reggere gli urti della vita senza abbassare mai il capo. Il libro ha vinto il Premio Planeta.
La breve favolosa vita di Oscar Wao (Mondadori) di Junot Diaz: Il Premio Pulitzer Junot Diaz sa mischiare a dosi massicce pazzia, ironia e martirio come nessuno. Niente Lieto Fine. Qualche lacrima. Grasse risate. Punti interrogativi come se piovesse. Ed ecco che finiamo senza preavviso dentro un frullatore. Se da una parte c’è Oscar, ragazzo sovrappeso, cresciuto negli Stati Uniti e con la mania del fantasy; Dall’altra troviamo sua madre Beli che fugge dalla sua Santo Domingo oppressa dalla dittatura di Trujillo. Si mescolano piani temporali e speranze. Ma tutto risulterà lineare in questo romanzo meticcio che ha incantato mezzo mondo.
Il Progetto Lazarus (Einaudi) di Aleksandar Hemon: uno scrittore bosniaco emigrato negli Stati Uniti si mette sulle tracce di una storia di inizio ‘900. Protagonista il diciannovenne Lazarus Averbuch, ebreo russo, ingiustamente vittima della follia omicida (e razzista) di un poliziotto di Chicago. Un romanzo che intreccia fili di memorie e di spaesamenti diversi. Il testo corredato dalle intense foto di Velibor Bozovic e anche un sito immaginifico (http://aleksandarhemon.com/lazarus/) dove realtà e finzione diventano un respiro solo.
L’AUTRICE – Igiaba Scego (nella foto, di ®Simona Filippini), esperta di transculturalità, è nata a Roma nel 1974. Tra i suoi libri: Pecore nere, scritto insieme a Gabriella Kuruvilla, Laila Wadia e Ingy Mubiayi (Laterza 2005); Oltre Babilonia(Donzelli 2008); La mia casa è dove sono (Rizzoli 2010, Premio Mondello 2011),Roma negata (con Rino Bianchi, Ediesse 2014).
E’ in libreria per Giunti il suo nuovo libro, Adua, romanzo a due voci, quella di un padre e di una figlia. Un testo che indaga il loro rapporto impossibile e lo fa seguendo tutte le loro luci e le loro ombre.
Quanto alla trama, Adua è oggi una donna matura e vive a Roma da quando ha diciassette anni. È una Vecchia Lira, così i nuovi immigrati chiamano le donne giunte in Italia durante la diaspora somala degli anni Settanta.Ha da poco sposato un giovane richiedente asilo sbarcato a Lampedusa e ha con lui un rapporto ambiguo, complicato. Non a caso lo chiama sempre Titanic, lo fa per rimarcare una differenza e forse per ferirlo un po’. Adua è confusa e a un bivio della sua vita. Medita di tornare in Somalia, paese che non ha più rivisto dallo scoppio della guerra civile. Ormai è sola a Roma, la sua amica Lul è già rientrata in patria. Per questo confida i suoi tormenti alla statua dell’elefantino del Bernini che regge l’obelisco in piazza Santa Maria sopra Minerva. Piano piano racconta a questo amico di marmo la sua storia: figlia di Zoppe, ultimo discendente di una famiglia di indovini, il padre lavorava come interprete durante il regime fascista. Negli anni Trenta Zoppe baratterà involontariamente la sua libertà con la libertà del suo popolo. Adua, fuggita dai rigori paterni e dalla dittatura comunista, approda a Roma inseguendo il miraggio del cinema. Purtroppo l’unico film da lei interpretato, un porno soft dal titolo Femina Somala, sarà fonte solo di umiliazione e vergogna. E solo adesso che il suo Titanic sta per partire, Adua si rende conto di essere pronta a riprendere in mano la sua vita…
e il significato della parola migrante. Un tempo credevo di saperlo. Anche rifugiato conoscevo bene come parola. Sono figlia di rifugiati d’altronde. So cosa significa vivere accanto a chi ha dovuto forzatamente lasciare la propria terra per una dittatura o una guerra. Ma oggi il veleno del razzismo inquina le parole. Quando è così servono tante storie per riempire di umanità
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